Cos'è il Jazz

 
 
Gli Strumenti del Jazz
 
   
   
   
 
 

 

 

GLI STRUMENTI DEL JAZZ

 

“ …..C O S 'E' I L J A Z Z ? “



Testo e fotografie di Ettore Ulivelli



Quella che segue, e' una serie di considerazioni sul tema del jazz, questa volta esaminandone gli aspetti evolutivi non attraverso i suoi accadimenti storici ( le varie epoche e relativi stili emersi) ma piuttosto attraverso l'evoluzione degli strumenti musicali in uso.
​Prima di procedere all'esame degli strumenti e' comunque opportuno chiarire almeno la genesi di questa straordinaria forma d'arte.

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​Sembra che il grande Fats Waller, alla domanda di un'anziana signora che chiedeva: “ cos'e' il jazz, Mr. Waller ? " , sospirando rispondesse: “ se ancora non lo sa, cara signora, lasci perdere”. ​In linea con questo atteggiamento, anche noi daremo per scontata sia una pur approssimativa conoscenza della storia del jazz sia la familiarita' con quei grandi musicisti che hanno contribuito alla nascita, allo sviluppo e ail' affermazione di questa unica ed irripetibile espressione della cultura afro americana.

E allora: Cos'e' il jazz?

​Una definizione del jazz comunemente accettata e' quella di Marshall Stearns, grande storico musicale americano e direttore dell' Institute of Jazz Studies di New York, secondo il quale il jazz e' “ il risultato di 300 anni di fusione, avvenuta negli Stati Uniti, delle tradizioni musicali europee con quelle afro occidentali, i cui componenti principali sono: armonia europea, melodia euro africana e ritmo africano.”
E' stato certamente un lungo processo evolutivo, passato dalle forme primitive ( il “ field holler” e la “ work song”) a quelle di piu' immediata comunicazione ed espressione corale ( blues, spiritual e gospel), continuato con le forme tradizionali ( ragtime, new orleans e dixieland) fino all'evoluzione definitiva attraverso swing, cool jazz, be bop, hard bop e gli stili piu' avanzati del free jazz e della fusion.
Parallelamente allo sviluppo storico di questi linguaggi musicali, si e' avuta anche una rapida evoluzione degli strumenti per esprimerli. ​In alcuni casi, come per il piano, la tromba e la famiglia dei sassofoni ( soprano, contralto, tenore e baritono) si e' trattato principalmente del perfezionamento di una tecnologia gia' esistente, se non altro come diretta eredita' della grande tradizione classica europea.
In altri casi, e in particolar modo per contrabbasso e batteria, si e' invece assistito ad una vera rivoluzione del ruolo stesso di questi due strumenti (definiti, con il piano, la “sezione ritmica” ) che, da posizioni di retroguardia ( confinati al semplice ruolo di accompagnamento) hanno raggiunto in seguito una collocazione in primo piano, giungendo a ricoprire anche il ruolo di solista.
Lo scritto che segue traccera' il percorso dello strumento che ha subito le trasformazioni piu' importanti sia dal punto di vista"visivo/coreografico” sia da quello funzionale: la batteria.


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Il periodo storico preso in esame termina approssimativamente con la decade che va dalla fine degli anni '50 alla fine degli anni '70. E' questo infatti, a giudizio di chi scrive, il periodo di maggiore creativita' e sviluppo del jazz (anche sotto il profilo strettamente strumentale,) come testimoniano le formazioni di Miles Davis, Max Roach, Art Blakey, Cannonball Adderley, John Coltrane e Bill Evans, Dave Brubeck, Charlie Mingus, Stan Getz, Keith Jarrett e Ornette Coleman , formazioni che trionfarono proprio in quel periodo E non a caso in quei gruppi si sono affermati i drummers piu' influenti di quelle decadi : con Miles Davis: Philly Jo Jones – Jimmy Cobb -Tony Williams -Jack De Jonhette ; Max Roach e Art Blakey: loro stessi ; Cannonball Adderley: Louis Hayes ; John Coltrane: Elvin Jones ; Bill Evans: Paul Motian ; Dave Brubeck: Joe Morello ; Stan Getz: Roy Haynes ; Keith Jarrett: Paul Motian – Jack de Johnnette ; Ornette Coleman: Billy Higgins.


L A B A T T E R I A

Lo sviluppo della batteria o “drum kit”, segue parallelamente quello del contrabbasso: la storia di questi due strumenti, del resto, non avrebbe potuto essere molto diversa in quanto rappresentano, per definizione, “ la sezione ritmica” in stretto accordo con il piano. Essi devono fornire una pulsazione costante e perfettamente integrata, come richiesta dalla struttura del jazz. Diversamente dal contrabbasso, la cui forma e dimensione sono rimaste immutate negli ultimi 300 anni, la batteria ha subito anche una notevole e ben visibile trasformazione fisica a partire dal 1935, quando Gene Krupa la proietto' in primo piano con il suo assolo nel brano “Sing,sing,sing”, magistralmente ripreso nel film “The King of jazz” - la storia di Benny Goodman.
Oggi e' addirittura diventato un elaborato elemento coreografico su un palcoscenico via via allargatosi per far posto, ad esempio, anche alle enormi amplificazioni usate nella musica “rock.”
Il cammino della batteria e' stato decisamente lungo: e' iniziato verso gli anni '20 con un semplice “drum set” composto da un'enorme grancassa( raramente suonata per non mandare in saturazione le registrazioni), un rullante, un piccolo tom ed il piatto “cinese”, arrivando alle dimensioni odierne, in alcuni casi veramente gigantesche: “le percussioni” ( come viene definito il set di tamburi) di una star del rock infatti possono comprendere 10 tamburi, 8 piatti di vario diametro ed una selva di aste e microfoni proporzionali al numero complessivo degli elementi.


Fino alla meta' degli anni '30, il ruolo della batteria si limito' alla scansione del tempo, in 2/4 o 4/4 nel modo piu' regolare possibile. In seguito, l'evoluzione degli stili nel jazz e la maturazione artistica e musicale dei suoi protagonisti richiesero a questo strumento una partecipazione piu' attiva ed un ruolo di tutto rilievo sia nei piccoli gruppi che nelle Big Bands. Anche la tecnica costruttiva stessa ha giocato un ruolo importante nella trasformazione della batteria, aggiungendo, modificando e inventando nuovi elementi per adeguarla sempre di piu' alla tecnica strumentale dei nuovi batterist, il cui stile si sbiluppo' unitamente a quello dei musicisti delle rispettive epoche.
Il suono grossolano del piatto cinese, ad esempio, viene gradualmente sostituito, verso la fine degli anni '30, da quello ben piu' definito e squillante del piatto Zildjian il cui diametro e gradazione ( ride, crash, splash etc.) consentono al batterista di sviluppare un nuovo grado di flessibilita' e creativita' nell'accompagnamento.
Allo stesso modo, il piatto a pedale subisce un aggiornamento: diventa lo “ hi-hat”, due piatti azionati da un pedale che scandisce il “levare” di ogni misura vale a dire l'accento sul 2 e sul 4. Nello stesso periodo vengono introdotte le spazzole metalliche usate particolarmente nei tempi lenti
(nelle “ballads” per es.). Jo Jones, Kenny Clarke e sopra tutti, Joe Morello, eccelleranno nel loro uso
A meta' anni '60 avviene un'ulteriore importante trasformazione: Gretsch, Slingerland, Ludvig e Premier, prestigiosi costruttori di batterie in quel periodo, aggiungono un secondo tom collocandolo sulla grancassa a fianco del primo.​
Ben presto, la scansione in 4/4 sul piatto”ride” e la relativa timbrica diventano cosi' particolari e personali, da caratterizzare addirittura lo stile ed il sound di alcuni batteristi che si possono quasi immediatamente individuare nelle registrazioni proprio grazie alla percussione del piatto ed agli accenti sul rullante.


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Durante gli anni '20 uno dei primi batteristi a creare uno stile individuale e' Warren “Baby”Dodds che suona con King Oliver.​ Alla fine della decade Gene Krupa e Dave Tough sono i batteristi piu' attivi a New York e Chicago; a Krupa, in particolare, si deve l'inizio dello sviluppo entusiasmante di questo strumento mediante la sostituzione di wood blocks, cow bell e altre diavolerie ideate per “arricchire” il suono della batteria con i tom tom accordabili. Il drum kit, come viene chiamato, acquista cosi' una forma e impostazione che rimarranno quasi definitive fino alla fine degli anni '70. Dave Tough e' noto per il suo contributo alla sezione ritmica delle orchestre di Tommy Dorsey, Bunny Berigan e Benny Goodman dal '36 al '38, ma raggiungera' la fama solo nel '45 nell'orchestra di Woody Herman. Ma sara' proprio Gene Krupa con il suo travolgente assolo in “Sing,Sing,Sing” ripreso in primo piano nel film “ The Story of Benny Goodman” a consacrare ai posteri il ruolo del drummer solista.
Negli anni '30, una nuova scuola di batteristi preparera' il terreno per i clamorosi sviluppi del be bop. “Big” Sid Catlett e' uno di questi grandi ed in seguito venerati precursori; nelle orchestre di Benny Carter, Fletcher Henderson e Don Redman sviluppera' uno stile cosi' personale e moderno da guadagnarsi la stima dei jazzisti di ogni scuola. Cozy Cole, entrando nell'orchestra di Cab Calloway nel '39, coglie il successo personale dopo una carriera piu' che decennale. E' un musicista completo e suona con jazzisti di ogni scuola che apprezzano la sua tecnica strumentale e la conoscenza della musica che perfeziona alla Juillard School.
Jo Jones inizia nel '36 un sodalizio duraturo con l'orchestra di Count Basie la cui sezione ritmica acquista uno swing mai avvertito prima di allora. L'uso innovativo dei piatti, delle spazzole e gli accenti ritmici su cassa e rullante ne fanno il batterista piu' influente di quel periodo grazie anche alle sue apparizioni con musicisti di svariate tendenze, quali Harry James, Teddy Wilson, Lionel Hampton, Benny Goodman e Lester Young.

Il 1940 apre l'era del be bop dalla quale emergeranno grandi capiscuola quali: Charlie Parker, Thelonious Monk, Max Roach, Dizzy Gillespie e Kenny Clarke. Quest'ultimo nel 1939 suona nell'orchestra di Teddy Hill ed e' gia' alla ricerca di quello stile che culminera' nello svincolo totale dalla grancassa suonata “ in quattro” cosi' monotona e, alla lunga, limitativa e inadeguata per la nuova musica che stava nascendo. Clarke inizia allora a trasferire il beat della grancassa al piatto “ride” intercalando accenti sul rullante e sulla cassa stessa che assume in seguito la funzione di solo contrappunto, a tutto vantaggio della fluidita' ritmica e dinamica.

L'influenza di Kenny Clarke e' presente in tutti i batteristi che si sono alternati sulla scena jazzistica dagli anni '40 agli anni '50. Max Roach ne e' l'erede in linea diretta e perfeziona lo stile di Clarke portandolo a livelli di incredibile maestria, gia' a partire dalle sue apparizioni nei gruppi di Dizzy Gillespie, Coleman Hawkins e Charlie Parker nel '44 e '45. Roach possiede musicalita' e tecnica eccezionali ed altrettanto unico e' il suo stile solistico, un capolavoro di sintesi ritmo-melodica espressa con uno strumento esclusivamente percussivo. La sua personalita' si stacca nettamente da quella dei suoi contemporanei anche per il noto impegno politico contro la discriminazione razziale, particolarmente accesa negli anni '50 e '60. Proprio su questo tema scabroso ha innestato i brani della sua celeberrima composizione “Freedom Now Suite” del 1960.
Art Blakey e' l'altro grande epigono di quegli anni: dopo gli esordi nell'orchestra di Billy Eckstine dal '44 al '47 passa attraverso una serie di esperienze minori e nel 1955 fonda con Horace Silver il primo dei numerosi “Jazz Messengers” che diverranno uno dei gruppi piu' prestigiosi degli anni '60.
Il suo stile,influenzato da elementi ritmici di derivazone africana (aveva trascorso un periodo in Africa proprio per studiare la complessita' ritmica delle danze tribali), e' quanto mai elettrizzante e caratterizza in modo inconfondibile il sound di tutto il gruppo. Blakey e' un accompagnatore di solidita' eccezionale ed un formidabile solista; il suo approccio riesce spesso a rendere comunque interessanti anche brani modesti tramite l'impiego colorito dei fiati ed un disegno ritmico molto serrato. Sono famosi i suoi stacchi in 9/8 (tempo tipicamente afro-cubano)– inimitabili – e lo squassante rullato con il quale apre l'assolo dei fiati. I periodi di militanza nei Jazz Messengers hanno portato alla notorieta' un folto stuolo di musicisti, tra i quali Donald Byrd, Lee Morgan, Benny Golson, Bobby Timmons e Wayne Shorter; quest'ultimo, dopo la morte di John Coltrane diverra' il suo erede piu' significativo ed uno tra i piu' influenti tenor sassofonisti degli anni '70.
Gli altri, cessata la collaborazione con Blakey, intraprenderanno un'apprezzata carriera come leaders di loro gruppi.
Anche nelle Big Band la batteria sposta gradualmente il proprio ruolo diventando protagonista a tutti gli effetti. E qui, non vi sono dubbi: i due piu' prestigiosi batteristi che hanno guidato dall'alto della loro postazione la sezione ritmica di una Big Band, sono Buddy Rich e Louie Bellson (nato Luigi Balassoni). Il primo e' veramente il mostro sacro della tecnica strumentale. Nel 1938, a soli 21 anni entra nell'orchestra di Bunny Berigane fino al '57 la sua carriera lo portera' nelle orchestre di Artie Shaw, Tommy Dorsey e Harry James fino alla fortunata tournee del '47 con il ”Jazz at the Philarmonic ". Dagli inizi degli anni '60 in poi, Rich costituira' varie Big Band composte essenzialmente da giovanissimi studenti prelevati dai campus universitari - gli unici, sia detto, in grado di sopportare il pessimo carattere del leader.
E sara' sempre il suo incredibile ed inimitabile “drive”, a consentirgli di superare le inevitabili limitazioni tecniche e musicali delle sue “reclute”. Infine, riesce a tenere inchiodati alle poltrone gli spettatori con assolo esplosivi che caratterizzeranno i suoi concerti.
Louie Bellson e' l'altra faccia del batterista con qualita' tecniche e musicali tali da caratterizzare il sound di un'orchestra: dopo Gene Krupa, infatti, Benny Goodman non poteva scegliere altri che questo musicista dalle impeccabili credenziali che nel 1943, diciannovenne, entra nella sua orchestra, pronto a raccogliere l'impegnativa eredita' di Gene Krupa. Bellson sara' anche un innovatore mediante l'uso simultaneo di due casse che verra' in seguito ripreso anche da molti altri batteristi di Big Band e soprattutto dai batteristi del Rock.
Dal '51 al '53, sara' il suo contributo, tra l'altro, a risollevare lo spirito e le fortune calanti dell'orchestra di Duke Ellington per il quale scrive anche diversi arrangiamenti tra i quali il celeberrimo “Skin Deep”, un vero inno alla batteria.
Sulla West Coast, un altro grande batterista, Shelly Manne, si affermera' come uno dei musicisti piu' richiesti per le sue doti di “uomo per tutte le stagioni”. Possiede tecnica ed una raffinata musicalita' con le quali riesce ad eccellere sia nella sezione ritmica di una Big Band che a fronteggiare qualsiasi piccola formazione, trio incluso.
Manne raggiunge fama internazionale nell'orchestra di Stan Kenton dal '46 al '47, poi con quella di Woody Herman nel '49 ed infine con Shorty Rogers nel '54.Ha inoltre suonato con Sonny Rollins, Stan Getz e Lee Konitz.
Tra la fine degli anni '50 e '60 la batteria compie il balzo in avanti piu' determinante per il suo sviluppo: e' sopratutto la nascita dell' hard bop e la sua impostazione stilistica a richiedere perentoriamente questo salto di qualita'.
Nei gruppi piu' prestigiosi che si alternano sulla scena jazzistica di questa decade, si formano batteristi che diverranno la piu' compiuta espressione dell'evoluzione, pressoche' definitiva, della batteria che si estendera' fino alla fine degli anni '70.
Dai gruppi di Miles Davis emergono: " Philly" Jo Jones, la cui presenza e' immediatamente avvertibile per i particolari accenti sul bordo del rullante e per la capacita' di sintetizzare e concludere, nello scambio delle quattro misure, ( exchange of fours, in gergo jazzistico) il discorso melodico iniziato dagli altri solisti; Tony Williams che, a soli 19 anni e' gia' un musicista maturo e diventerà', negli anni successivi, il batterista piu'ambito ed imitato unitamente ad Elvin Jones e Jack deJohnette.
Tony Williams ha assorbito lo stile di Max Roach, Art Blakey e Roy Haynes, di cui ha perfezionato il ride velocissimo sui piatti. Lo stile derivante da questa sommatoria di influenze potrebbe anche risultare un ibrido se non fosse filtrato dalla sua straordinaria musicalita' e fantasia ritmica negli assolo che ne fanno uno tra i piu' grandi innovatori.
Va considerata infine tutta la scuola di batteristi maturata nel corso degli anni '70, di ispirazione “free” e “fusion” alla quale fanno capo musicisti quali Harvey Mason, Billy Higgins, De Johnette, Billy Cobham, Lenny White, Victor Lewis, Peter Erskine.
Un altro grande innovatore nell' affascinante storia della batteria e' Elvin Jones, che l'ha svincolata dalla scansione binaria costante, a favore di un approccio poliritmico di incredibile fluidita' sostenuto da accenti sul rullante in continua mutazione.
Sia negli assolo che nel sapiente uso della dinamica e dei poliritmi Jones si rivela una vera forza della natura, sapientemente imbrigliata da tecnica, disciplina e sensibilita' musicale proprie dei grandi precursori.
Elvin Jones e' rimasto cosi' intimamente legato allo stile ed agli insegnamenti di John Coltrane da legittimare questa riflessione: fino a che punto l'interazione tra questi due grandi musicisti e' stata strumentale nella reciproca maturazione ed evoluzione artistica e quanto ciascuno deve all'altro ? La risposta l'abbiamo avuta, purtroppo, qualche anno dopo la prematura scomparsa di Coltrane: pur rimanendo con Tony Williams il batterista piu famoso ed imitato degli anni '70, Elvin Jones non e'
piu' riuscito a trovare una formazione e un leader con il quale esprimere ancora quella stupenda coesione che si manifestava nel sound inimitabile del quartetto di Coltrane.
Ma sarebbe limitativa la mancata menzione di numerosi altri batteristi molto attivi negli anni '60, ricordiamo : Roy Haynes, un notevole stilista apparso a fianco di Stan Getz, Thelonious Monk, Bud Powell e McCoy Tyner; Louis Hayes, che ha contribuito con la sua velocissima scansione ed accentuazioni ritmiche a rendere elettrizzanti le atmosfere del quintetto di Cannonball Adderley; Joe Morello, che ha reso unico ed immediatamente riconoscibile il sound del quartetto di Dave Brubeck con tecnica, precisione di esecuzione, swing ed eccellente musicalita' - degni supporti alla stupenda sonorita' di Paul Desmond - semplicemente inarrivabile infine, nell'uso delle. spazzole ; Danny Richmond, una forza propulsiva ideale per gli umori e le variazioni dei tempi nelle trascinanti composizioni di Charlie Mingus; Ed Thigpen, l'insostituibile e raffinata presenza, con Ray Brown, nel trio di Oscar Peterson; Paul Motian che, con Scott La Faro, ha contribuito non poco alla leggerezza quasi eterea delle stupende atmosfere di Bill Evans.
Può riuscire difficile al casuale ascoltatore di jazz considerare la batteria uno strumento cosi' determinante per la caratterizzazione del sound di un gruppo o di una Big Band. E allora io vi esorto ad ascoltare i batteristi menzionati per apprezzarne l'indispensabilita' del ruolo svolto.


 

 


 

 



 

 

 

 


 

 

 

 





 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
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