Charlie Parker
 
 
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Charlie Parker

 

 

 

Il fumo galleggiava nella stanza sporca. Qualcuno scuoteva la testa, altri battevano il tempo con i piedi, corpi sudati oscillavano seguendo il jazz che veniva dal palcoscenico. Era una jam session al Reno Club di Kansas City. Anno, 1936. Sulla piattaforma che i nove orchestrali di Count Basie chiamavano casa, quella notte al completo c’era solo la sezione ritmica. Trombettisti, trombonisti, sassofonisti di tutta la città si sfidavano a turno in una sorta di battaglia musicale mentre gli altri ascoltavano in disparte. Basie sbirciò da sopra il pianoforte ed incontrò gli occhi di un ragazzotto tarchiato che se ne stava in piedi vicino al palco stringendo un sassofono contralto. Al cenno di assenso del pianista, il ragazzino si unì ai molti musicisti che già affollavano la scena. Un sassofonista tenore stava triturando un blues veloce, costruendo ritornello su ritornello nel tipico stile di Kansas City. Quando arrivò al culmine finale, la folla applaudì urlando la sua prova. Il ragazzo alzò il suo sassofono ed iniziò a suonare, mentre le prime note si perdevano nel frastuono. Era trasportato dal ritmo trascinante di Basie. Del contrabbassista Walter Page e del batterista Jo Jones. Per essere un ragazzino giovanissimo, sembrava suonare con una sicurezza non abituale, ma la sua inesperienza si manifestò chiaramente nel secondo chorus quando, cercando un nuovo schema di blues, parve perdere il filo dei suoi pensieri bloccandosi all’improvviso, con lo sguardo vacillante e le dita che muovevano le chiavi senza scopo. La sezione ritmica andò avanti a tutta forza mentre lui frugava nella mente alla ricerca di una nuova idea. La pausa, che avrebbe potuto essere misurata in lunghissimi secondi, fu rudemente spezzata dal crollo fragoroso di un piatto, scaraventato dal batterista sulla pista da ballo con un gesto d’impazienza e di disprezzo. Il messaggio era chiaro: giù dal palco! Fu un momento determinante nella giovane vita di Charlie Parker. In lacrime, corse fuori dal club, dopo che la sua prima prova a confronto con veri professionisti era stata un completo fallimento. Ma anche se la sua sicurezza aveva subito un duro colpo, le sue ambizioni restavano intatte. Era fortemente determinato ad essere qualcuno, e voleva crescere in fretta. Avrebbe soddisfatto entrambi e desideri, pagandoli a caro prezzo. Ci sono due città che portano il nome di Kansas City. Una si stende sul bordo orientale dello stato del Kansas, dall’altra parte del fiume che la divide dalla sua vicina del Missouri. Charlie Parker è nato nel lato del Kansas il 29 agosto 1920. Suo padre, un tempo pianista di vaudeville e cantante diventato cuoco nelle ferrovie e che avrebbe lasciato la famiglia quando Charles aveva sette anni, quell’anno si trasferì nella parte del Missouri. Sua madre descrisse Charlie come un bambino grassoccio, di ottimo carattere e molto intelligente. Era un bravo studente alle elementari e nei tre anni in cui frequentò le medie. Nell’orchestra della scuola, cominciò a suonare il sassofono baritono e il clarinetto, ricevendo il suo primo sax alto al quindicesimo compleanno. Nel giro di un anno, se la cavava già piuttosto bene al contralto, guadagnando un  po’ di soldi in qualche ingaggio professionale. Era già marito: Rebecca, sua moglie, aveva parecchi anni più di lui. Un figlio, Leon, sarebbe nato nel 1937, ma il matrimonio sarebbe terminato con un divorzio. Dopo l’umiliazione subita al Reno Club, Charlie si rese conto di essere ancora poco preparato per misurarsi con le capacità dei grandi solisti che avevano reso famosa Kansas City nel mondo della musica. Idolatrava Lester Young, la stella del sassofono tenore di Basie, e più tardi avrebbe copiato nota per nota i suoi assoli, con quella sonorità leggera e secca che sarebbe restata uno dei marchi di fabbrica di Parker. Fu anche attratto ed influenzato da Buster Smith, un altosassofonista texano a cui si attribuiscono i fondamenti dello stile di Parker. Ma Smith andava e veniva dalla città e sarebbe passato un po’ di tempo prima che i loro sentieri si incrociassero. Intanto, Charlie era approdato ad un lavoro con un’orchestra che suonava in un ritrovo estivo sulle montagne dell’Ozark. Nelle settimane che seguirono, si dedicò allo studio dell’armonia di base con il pianista e col chitarrista del gruppo, che furono felici di aiutare un allievo così appassionato. Quando ritornò sulla scena di Kansas City, era evidente a tutti che la sua abilità stava avvicinandosi alla sua ambizione. Ma stava anche emergendo il lato oscuro della sua vita. Molti fanno risalire a quel periodo l’inizio di quella dipendenza dall’eroina che lo avrebbe segnato per tutta la vita. Quello che probabilmente era cominciato come semplice esperimento di un ragazzino, divenne abitudine, poi tossicodipendenza, arrivando infine a distruggere la sua carriera e la sua vita. Per il momento, comunque, Parker cresceva nell’esplorazione delle sue nuove possibilità. Un breve periodo nell’orchestra del pianista Jay McShann sarebbe stato seguito da qualche lavoro dello stesso genere con le orchestre locali di Lawrence “88” Keyes e di Harlan Leonard, già sassofonista di Bennie Moten. In seguito, firmò per Buster Smith, prima con un quintetto locale, poi in una grande orchestra radunata nella speranza di affrontare delle tournèe di successo. La big band non riuscì ad accendere nessun fuoco, così Smith se ne andò a New York. Parker, da allora conosciuto come “ Yardbird” o semplicemente “Bird”, passò alcune settimane decisamente poco produttive in città, poi se ne andò a New York per i fatti propri, rintracciando Smith ad Harlem. Passò un bel po’ di giorni a lavare i piatti nei ristoranti, con la possibilità di dormire nell’appartamento di Smith quando non restava fuori a suonare insieme una volta terminato il lavoro notturno. La Clark Monroe’s Uptown House venne aperta nel 1935 e dal momento in cui Parker cominciò a suonare divenne la Mecca per i musicisti che amavano passare la notte in reciproche sfide, tanto accanite quanto fondamentalmente bonarie. Parker, che suonava nel complessino stabile del locale, guadagnava solo dalle mance, e ricordò che l’incasso della serata poteva andare da pochi centesimi a cinque o sei dollari. Ma il contatto con musicisti che venivano in visita, come Hot Lips Page, Red Allen, Ben Webster, Kenny Clarke, Don Byas e Lester Young, o anche la cantante Billie Holiday, non poteva essere misurato in termini di denaro. In tale compagnia Parker, che stava ancora crescendo musicalmente, aveva poche probabilità di essere notato, sebbene abbia ricordato che uno dei primi trombettisti di Count Basie, Bobby Moore, gli fornì un robusto incoraggiamento. Ma Charlie era ancora alla ricerca del proprio modello espressivo. Molto di quello che ascoltava era ancora nell’idioma musicale dello swing, e sentiva che ci doveva essere qualcosa al di là di quello stile familiare, che per lui non era più né fresco né innovativo. Secondo i suoi stessi ricordi, ebbe una rivelazione una notte, mentre stava improvvisando un po’ a casaccio su Cherokee in un ristorante messicano di Harlem, cercando qualcos’altro che non fosse la normale progressione di accordi del brano, scoprì che utilizzando le note più alte degli accordi di una melodia per creare una nuova linea melodica e sostenendoli con progressioni accordali adeguate (secondo le sue stesse parole), cominciava a suonare quello che aveva sentito nella sua testa senza riuscire a trasformarlo in esecuzione musicale. Come disse, era finalmente vivo. Sfortunatamente, non ci sono dischi di quel periodo che possano documentare i progressi musicali di Bird. Il primo disco che avrebbe registrato fu con l’orchestra di Jay McShann nell’aprile del 1941 (vi era entrato nel 1940). Con un’ampia disponibilità di assoli, Bird spicca anche in un’orchestra zeppa di talenti interessanti, compreso un cantante di blues di prima classe, Walter Brown. Dopo un’importante permanenza al Savoy Ballroom, l’orchestra prese la strada, e Parker tornò poi a New York dove alla Minton’s Playhouse si unì ad una generazione di musicisti interamente nuova, gente il cui sguardo non era meno rivolto al progresso del suo: l’effervescente ed avventuroso Dizzy Gillespie, l’innovativo Kenny Clarke che condivideva la batteria col suo discepolo Max Roach, un tipo familiarmente conosciuto come “ Monk” che suonava al pianoforte sorprendenti idee armoniche, e un giovane pianista che lui ascoltava molto e che quando era ispirato poteva abbagliare tutti con la sua immaginazione e con la sua tecnica: Bud Powell. Nell’insieme erano una strana collezione di personalità le cui vite erano intersecate da uno scopo comune: una musica libera da compromessi commerciali e da compromessi in generale, una musica che incorporava quello che provavano dentro di loro e che desideravano con forza, una musica che fosse identificabile come loro. Probabilmente nessuno di loro lo espresse mai coscientemente a parole, ma gli sforzi presero inevitabilmente quella strada. La storia avrebbe ratificato il ruolo di ciascuno. Con le sue complessità e le sue innovazioni, il bebop non era una musica spuntata in una notte. Era piuttosto il prodotto di costanti scambi di idee, sperimentazioni e distillazioni. Presupponeva la padronanza assoluta dello strumento, nessun musicista incapace di stare al passo con gli altri restava a lungo sul palco, tanto grande era il suo imbarazzo. Tempi presi a velocità torride, tonalità inconsuete e il travestimento di melodie familiari erano alcuni dei trucchi usati normalmente per sbarazzarsi dei musicisti meno abili. Anche stelle affermate delle orchestre swing che venivano a vedere quello di cui si parlava, quando suonavano lo facevano a proprio rischio e pericolo, sebbene persone dalle idee piuttosto avanzate come il chitarrista Charlie Christian, il trombettista Howard McGhee, i sassofonisti Don Byas e Lester Young e il riverito pianista Art Tatum fossero sempre le benvenute. Christian, in particolare, fu riconosciuto come precursore originale e, come mostrano le registrazioni non ufficiali realizzate al Minton, era più che a proprio agio in qualunque compagnia. Quasi unico tra gli autentici veterani, Coleman Hawkins venne, ascoltò in modo analitico e, da consumato musicista qual’era, riuscì ad entrare con successo nel nuovo territorio musicale. Buona parte del periodo di gestazione del bop si svolse senza il beneficio delle registrazioni, a causa del lungo sciopero discografico iniziato nel 1942. Questo sfortunato periodo di magra per i musicisti impedì ogni duratura memoria di un gran numero di meritevoli orchestre del periodo bellico, tra le quali quella che Earl Hines diresse nel 1943, nei cui ranghi agivano Charlie Parker, Dizzy Gillespie e non pochi altri iniziatori del bop. Bird era stato reclutato tramite i buoni uffici del tenorsassofonista  Budd Johnson (che stava per lasciare l’orchestra) e del grande cantante di jazz Billy Eckstine. Occupare il posto di Johnson al tenore perche erano già stati presi tutti quelli di contralto non si addiceva a Parker, che restò dieci mesi e se ne andò in qualche breve tour con Andy Kirk e Cootie Williams prima di ritornare nuovamente tra i musicisti “progressivi” nella nuova orchestra di Billy Eckstine. Questa non registrò nessun disco prima della partenza di Bird (e di Dizzy), e anche allora nient’altro che poche facciate di qualità atroce, in lotta con terribile rumori di fondo. Il vero successo giunse per il bop all’inizio del 1945. La musica ora abitava stabilmente la Cinquantaduesima strada, col sestetto di Dizzy Gillespie (in cui c’era Bird) al Three Deuces. La loro seduta di registrazione Guild, tra febbraio e marzo, fu realizzata anche con musicisti dello stile “di mezzo” come Clyde Hart, Remo Palmieri, chitarra, Slam Stewart, contrabbasso, e Cozy Cole, batteria. In quel giorno furono incisi tre dei primi classici del bop: Groovin’ High, la ballad All The Things You Are e Dizzy Athmosphere. Secondo la pratica ormai comune, alle armonie di ben noti standard furono applicate variazioni melodiche e ritmiche completamente nuove; così Groovin’ High riecheggiava la venerabile Whispering, proprio come Ornithology, un altro successo di Parker, era basata su How High The Moon. Il repertorio del bop abbonda di simili “prestiti”. Nel maggio del 1945, una seduta assai celebrata incluse il pianista Al Haig e il contrabbassista Curley Russell che erano più orientati verso il bop, tanto quanto il versatilissimo batterista Sidney Catlett. I brani erano Salt Peanuts di Gillespie, Shaw’ Nuff (dedicato al manager del gruppo Billy Shaw), Hot House (dell’arrangiatore Tadd Dameron) e un gradevole accompagnamento offerto alla cantante Sarah Vaughan in Lover Man. Questi dischi e le sensazionali esibizioni di Bird nella Cinquantaduesima strada con Ben Webster, Gillespie e finalmente con il proprio gruppo al Three Deuces, segnarono l’emergere del bop come movimento pienamente formato. Come si poteva prevedere, appena il bop divenne disponibile su disco e nei principali jazz club di New York nacque una tempesta di polemiche. Critici e recensori affermati erano, nel complesso, sgomentati dal disprezzo per le convenzioni che la nuova musica presentava. Qualcuno disse che il bop non meritava nemmeno il nome di jazz. La stampa musicale si gettò nella mischia con vero piacere, offrendo grande spazio a detrattori e difensori perché vi mettessero in mostra i loro argomenti. Ironicamente, proprio in quel periodo sorse un vitale revival dello stile di jazz di New Orleans, che molti dei suoi sostenitori videro come un antidoto all’infezione rappresentata dal bop per il corpo del jazz. I due poli in guerra andavano da bop contro swing a “moderno” contro “tradizionale”, una separazione che divide il pubblico del jazz ancora oggi, quando le forme progressive di jazz si avventurano anche più lontano in territori esotici: scale e divisioni metriche prese in prestito da fonti musicali classiche tanto quanto di diverse origini culturali, ritmi che parlano di altre terre e altre culture e, alla fine, con il “free jazz”, l’abbandono del metro regolare, dell’armonia e degli altri punti fissi a cui musicisti e ascoltatori fanno riferimento. Ma tutto questo sarebbe appartenuto al futuro. Nel 1945, il bop era l’avanguardia. A Parker, che fu uno dei musicisti maggiormente responsabili del movimento, possono essere accreditati tre contributi specifici, messi in rilievo nel prezioso testo di studio di Mark Gridley Jazz Styles. Essi sono: 1) nuove modalità di scegliere le note che si adattano alla struttura accordale esistente di un brano (illustrate dalla persona scoperta di Parker su Cherokee);  2)un approccio nuovo e fresco all’accentua-zione delle note nel fluire della musica che genera nuove soluzioni sincopate; 3) l’arricchimento delle progressioni accordali con l’aggiunta di accordi interposti e tramite le note scelte per i passaggi improvvisati che comportano ancora ulteriori accordi supplementari che non sono esplicitamente suonati. Altri saggisti hanno evidenziato i contributi ritmici  di Parker, uno in particolare facendo notare che molti ascoltatori trovano difficile confrontarsi con quanto le idee ritmiche di Parker esigono da loro, mentre possono trovare abbastanza abbordabili le sue variazioni melodiche e armoniche. La collaborazione di Parker e Gillespie continuò alla fine del 1945, quando il loro piccolo complesso, in cui vi era il vibrafonista Milt Jackson, fu scritturato nel club di Billy Berg a Los Angeles. L’impatto del gruppo nella costa occidentale fu anche più sensazionale di quanto non fosse stato a New York, e in generale fu ricevuto con distacco, al punto che Parker arrivò a sostenere che la gente lo “odiava”. Era il momento meno adatto per qualunque tipo di insuccesso. Parker, ormai schiavo dell’eroina, era in pessime condizioni fisiche, emotive e finanziarie. Saltò il lavoro per notti intere, e la band fu costretta a tenere sempre pronto al telefono il sassofonista Lucky Thompson. Alla fine di quell’ingaggio, Bird, ammalato e praticamente in pezzi, restò, mentre Dizzy e gli altri tornarono all’est. Firmò un contratto per l’etichetta Dial nel marzo del 1946, utilizzando tra gli altri Miles Davis, Lucky Thompson e il pianista Dodo Marmarosa, ma durante una seduta d’incisione per la stessa etichetta, con un sestetto che comprendeva il trombettista Howard McGhee, Parker ebbe un crollo psichico, per cui più tardi nella notte incendiò la propria camera d’albergo, cosa che portò al suo arresto. Passò i successivi sei mesi seguendo una cura disintossicante al Camarillo State Hospital, dopo di che registrò nuovamente per la Dial, apparentemente guarito. Al suo ritorno a New York, Parker, ora alla testa di un proprio gruppo, andò ancora una volta al Three Deuces. Con lui c’erano Miles Devis, Max Roach, il contrabbassista Tommy Potter e il pianista Duke Jordan. Per una seduta Dial del giugno 1947, Jordan fu sostituito da Bud Powell. Quell’anno avrebbe visto nascere un buon numero di “classici” di Parker, con molti dischi realizzati sia per la Dial sia per la Savoy, compresa una seduta di dicembre in cui era impiegato lo straordinario trombonista J.J. Johnson. Nel frattempo Dizzy Gillespie era occupato altrove con la seconda edizione di una big band, un’idea che aveva preso forma all’inizio del 1945, prima dell’ingaggio al Billy Berg. Pur essendo entrambi figure estremamente produttive nello sviluppo del bop, Gillespie e Parker portarono alla loro musica la personalità e metodi di lavoro completamente differenti. Dizzy, dottissimo trombettista capace di affrontare col proprio strumento i voli più selvaggi, nei confronti della musica era tutto eccetto che “pazzerellone”, come sembrerebbe significare il suo soprannome. Compositore ricco di immaginazione, poteva essere descritto come uno dei “codificatori” del bop, un musicista il cui istinto lo spingeva a mettere su carta molte delle idee che altrimenti avrebbero potuto essere inviate nello spazio, per non ritornare più. Parker sembrava interessato alla creatività dell’istante; probabilmente non gli capitò mai di improvvisare un assolo in due modi uguali durante una seduta di incisione. Gillespie era anche un intrattenitore naturale, che ravvivava le sue esibizioni col linguaggio del corpo e con cambiamenti improvvisi  dell’espressione del viso. Rideva tanto, e il suo pubblico non pensò mai che Gillespie si prendesse così sul serio. Non c’è da meravigliarsi che, tra i due, fosse lui ad avere anche l’ambizione di dirigere una grande orchestra. Conoscendo il valore della pubblicità, Dizzy non ebbe difficoltà ad adottare come superficiali marchi di fabbrica “ bop” gli occhiali neri con la montatura pesante, il berretto con le visiera e la piccola barbetta a punta che furono così tanto imitati dai fans. Parker, sebbene in circostanze normali fosse una persona simpatica e riflessiva capace di comunicare benissimo col proprio pubblico, non era per nulla estroverso. Dietro alle espressioni del suo viso, mentre suonava vi erano i procedimenti mentali che producevano ora dopo ora, notte dopo notte, torrenti di improvvisazione quasi incredibili. Guardando indietro, appare inevitabile che ciascuno di loro dovesse prendere la propria strada, senza tener conto degli eccessi di Parker, che col tempo divennero solo più inopportuni. Nel 1948, Bird andò in tournèe con il Jazz at the Philharmonic di Norman Granz. L’anno seguente si esibì al festival jazz di Parigi e suonò all’inaugurazione del Birdland, un nuovo locale jazz chiamato così in suo onore. Firmando con Norman Granz per quella che sarebbe diventata una notevole serie di dischi, Bird sorprese molti fans e ne confuse non pochi quando iniziò ad usare una sezione d’archi come accompagnamento ai propri voli. Il repertorio non era più centrato sui fragili e confusi ritornelli all’unisono dei primi tempi del bop. L’immaginazione e la tecnica di Parker ora erano applicate a programmi zeppi di elaborazioni di canzoni celebri. Se, comunque, una sezione d’archi era una concessione commerciale, qualcosa che la massa del pubblico potesse accettare, la fantastica abilità di Parker nel progettare e nell’eseguire le proprie improvvisazioni in pochi secondi restava intatta. E, di tanto in tanto, sarebbe ritornato alla strumentazione piu convenzionale  del piccolo gruppo, talvolta con l’aggiunta di effetti afro-latini. Ma la tensione della vita, professionale e personale, gli pesava e né l’alcool né le droghe con cui cercava di vincerla potevano appagarlo. Nel 1948 era fallito il suo matrimonio, e due anni dopo era entrato in un legame more uxorio da cui nacquero due figli, una bambina, Pree ed un maschietto, Charles. Nel marzo del 1953 subì un colpo crudele, sua figlia morì di polmonite mentre egli era in tour. Due mesi dopo sarebbe stato coinvolto in uno degli eventi più giustamente celebrati della sua carriera. Alla Massey Hall di Toronto la New Jazz Society presentò quello che sarebbe stato chiamato “ Il Quintetto dell’Anno”, composto da Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell, il contrabbassista Charles Mingus e Max Roach. Fu una riunione storica di giganti del jazz moderno, anche se insolitamente agonistica a causa degli antichi dissapori tra Bird e Dizzy. Parker, che connetteva sempre meno, arrivò in Canada senza il suo sassofono e per sostituirlo venne precipitosamente procurato in un negozio di musica del posto uno strumento di plastica bianca. Mingus, per fortuna, aveva portato un registratore a nastro portatile, con cui realizzò la sola registrazione dell’evento. Mingus l’avrebbe poi pubblicata nella propria etichetta Debut, e in seguito sarebbe apparsa su Fantasy e Prestige. Metà del concerto fu riservata a Powell sostenuto da Mingus e Roach, ed è una meraviglia, con Powell in forma eccellente sebbene fosse appena stato dimesso da una clinica di New York dove era stato sottoposto ad elettroshock. Parker, sul suo sassofono preso a prestito, e Gillespie sono strepitosi nella loro più riuscita collaborazione, suonando come se non si fossero mai allontanati uno dall’altro. Un film hollywoodiano potrebbe terminare la storia di Bird qui, in un momento di trionfo, ma la sua vera vita era destinata ad interpretare la parte fino all’ultima tormentata scena. Vi furono una grande quantità di ingaggi mancati e di comportamenti irrazionali sul palcoscenico, dove gli altri musicisti non potevano fare altro che assistere costernati. Vi furono anche momenti di jazz delizioso e volatile, ma col passare dei mesi sarebbero stati sempre meno. Una volta, licenziato dal Birdland, il club che si ispirava proprio a lui, tentò il suicidio bevendo tintura di iodio e passò dieci giorni sotto osservazione al Bellevue Hospital, solo per esibirsi con un successo nel concerto della Town Hall poco dopo. La fine sopravvenne il 12 marzo 1955, esattamente una settimana dopo la sua ultima esibizione al Birdland. Mentre guardava con piacere un programma televisivo nell’appartamento di un’amica ed ammiratrice, morì all’improvviso dov’era seduto. Il medico che lo aveva in cura avrebbe stimato l’età del musicista deceduto tra i cinquanta e i sessanta anni. In realtà, Bird non aveva ancora trentacinque. L’autopsia rivelò che la morte poteva essere stata causata da una tra queste numerose patologie: polmonite, cirrosi epatica, ulcera allo stomaco o attacco cardiaco. La complessità lo segnò nella morte come aveva fatto nella vita. La storia del jazz è piena di eroi morti troppo giovani, per quanto colpevoli possano essere stati. Per ognuno che è caduto prima del tempo, ce ne sono altri che sono sopravvissuti. Ma la breve fiammata del genio di Charlie Parker non sarebbe stata dimenticata. Sarebbe vissuta in un gran numero di giovani musicisti venuti dopo, si sarebbe manifestata anche nel mondo della musica commerciale. Più di una generazione dopo la sua scomparsa, un torrente di note argentine e di improvvisazioni affascinanti continua a sorprendere e a deliziare ascoltatori che non ne conoscono l’origine né se ne preoccupano. Nel senso migliore, i graffiti che furono tracciati ovunque da anonimi in lutto per la sua morte hanno ricevuto conferma: Bird vive davvero. 

 

 
   
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