Ornette Coleman
 
 
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Ornette Coleman: This is our music – Coleman as; Don Cherry tr.; C. Haden bs.; E. Blackwell dr.

 



Ho ascoltato a lungo e con molta attenzione Coleman sin dagli inizi cercando disperatamente qualcosa che potesse avere qualche validita'. Non ci sono riuscito.
A parte l'abominio della sua tecnica, e la risultante mancanza di controllo la musica di Coleman ha solo due sfumature: un lirismo malinconico ed implorante ed una ferocia esecutiva sconfinante nel pandemonio.
La sua non e' liberta' musicale: il disprezzo per i principi e confini musicali, non e' liberta' ma anarchia. Come evidenzia questo disco, le idee di Coleman e, in una certa misura quelle del suo gruppo, arrivano a sbalzi frammentati a sbadigli di depressione colmati da note senza senso, sia in relazione all'idea principale che a quella d'insieme.
Alcune tra le composizioni di Coleman sono valide, ma non piu' di tanto.
Prendiamo “Blues connotation”, un tema vivace (suonato in modo trasandato nell'assieme) che trova Coleman interpolare frasi in una forma distorta con il tema di John Lewis “The golden striker”.
E' ingegnoso ma non e' indice di grandezza.
E malgrado l'avvio promettente “Beauty is a rare thing” prosegue poi in
un'orgia di starnazzi. Il caos derivante e' un'insulto all'intelligenza dell'ascoltatore; il tutto suona come un'orribile scherzo e la domanda qui non e'tanto se questo sia jazz quanto se sia musica.
Coleman e' stato criticato per non voler suonare gli standards e specialmente le ballads. Qui invece include “Embraceable you”.
Un grosso errore: se l'avesse tralasciato noi non avremmo ancora la registrazione circa la sua capacita' di suonare una ballad. Ora lo sappiamo. O forse, ci sta solo prendendo in giro: non puo' essere vero....L'introduzione sarebbe imbarazzante anche per un gruppo di quattordicenni dilettanti che l'eseguissero, ma Coleman e compagni dovrebbero essere considerati dei professionisti.
Riflettendoci, Coleman incomincia ad essere come una vittima: e' stato
acclamato come genio quando non lo e'. E' assurto a simbolo di liberta' musicale mentre ne e' l'antitesi. Ha definito “naturale” la sua musica mentre in tutta verita' e' solo caotica. E' stato definito come l'estensione logica di Parker mentre ne e' l'estensione illogica.
E' la vittima di persone che non vogliono consentirgli di sviluppare un talento che potrebbe avere o quale dono potrebbe portare al jazz. Invece sembra essere stato spinto nel crepuscolo anzitempo. Quando un uomo e' definito genio e profeta del jazz che verra' l'esercizio e l'esplorazione dello strumento diventano secondari e Coleman, infatti, ha pubblicamente dichiarato di non averne piu' bisogno.
Se dico di non capire la musica di Coleman, i suoi sostenitori rispondono che e' colpa mia e non sua. Ma l'oscurita' e' stata presa troppe volte per profondita' malgrado i due termini non siano sinonimi. Non capisco i farfugliamenti di mia figlia che ha due anni. Cio' rende quei suoni profondi? Lo dubito. Ritengo esserci poca profondita' nella musica di Coleman ma se anche ci fosse, risulterebbe oscurata dalla sua inabilita' a comunicarla. E la sciatta esecuzione sia sua che di Cherry in questo disco preclude tale comunicazione. Se la musica di Coleman deve essere considerata lo standard di eccellenza, allora quella di Lester Young, Armstrong, Parker ed Ellington e tutti quegli altri jazzmen che sono stati accettati come artisti importanti devono essere buttati alle ortiche.
Don DeMicheal – Down Beat


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Condiderazioni di Ettore Ulivelli


Dall'inizio del '59 alla fine del '60, Coleman incide 6 LP riscuotendo un notevole successo di critica che definisce “astonishing” (straordinari) molti brani, tra cui proprio il qui sopra vituperato “Embraceable you“. Le recensioni terminano tutte definendo questi dischi “An essential collection”. Una mia riflessione: come puo' essere la critica ad un LP ed al suo creatore diametralmente opposta a quella che si legge sulla Penguin Guide to Jazz compilata da Richard Cook e Brian Morton? Beh, direi che anche questo aspetto fa parte delle grandi contraddizioni cui la storia del jazz ci ha abituati. Io, comunque, sto con Don DeMicheal.

 
   
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