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Il Principe Pepito Pignatelli e il Jazz 

 


Principe del S.R.I.,  XVI  principe di Castelvetrano,  XVI principe di Noja,  XVIII duca di Monteleone,  XVI duca di Terranova,  XVIII marchese di Cerchiara,  XVI marchese di Avola  e marchese di Caronia: questi i titoli ereditati da Giuseppe Pignatelli e Molyneux , detto Pepito, nato a Città del Messico il 9 ottobre 1931 e meglio conosciuto come pianista e batterista jazz, nonché fondatore dello storico “Music Inn” di Roma. 

Mecenate senza quattrini che ai suoi titoli tuttavia preferiva Charlie Parker e Dizzy Gillespie, Pepito coltivò fin da bambino la sua passione per la musica, alimentandola in modo fin quasi estremo, ma comunque coraggioso e intraprendente e realizzando alla fine degli anni Sessanta il suo sogno di aprire un locale dove poter ascoltare i suoi musicisti preferiti, all’interno di uno scenario jazzistico romano ancora acerbo.In sua compagnia c’era la moglie Maria Giulia Gallarati, detta Picchi, sposata nel 1959 e anch’essa appassionata di musica jazz.

Su modello del FolkStudio nacque così nel 1969 il Blue note, in via dei Cappellari, che, privo di licenza per somministrare alcolici, non ebbe lunga vita ma riuscì in poco tempo ad ospitare musicisti come  Jean Luc Ponty, Phil Woods, Johnny Griffin e Dexter Gordon.

Due anni dopo, Pepito individuò un altro locale, in largo dei Fiorentini, alle spalle di via Giulia: si trattava di una cantina abbandonata che rilevò dall'Arciconfraternita e che inaugurò, dopo molte vicissitudini e ritardi burocratici, diventando in poco tempo il luogo di riferimento del jazz romano e la palestra per un'intera generazione di jazzisti italiani. Qui suonarono i giovani Massimo Urbani,  Maurizio Giammarco, Danilo Rea, Roberto Gatto, Enrico Pieranunzi, Antonello Salis, e i colleghi più maturi Giovanni Tommaso, Franco D'Andrea, Gegè Munari, insieme a mostri sacri internazionali quali Dexter Gordopn, Johnny Griffin, Chet Baker, Mal Waldron, Charles Mingus, Bill Evans, Elvin Jones, Ornette Coleman, Steve Lacy, Gato Barbieri.

Tra sacrifici ed amore, con un entusiasmo capace di superare ogni difficoltà, la coppia principesca mise in carreggiata un locale fumoso, con le salette scavate nel tufo e le panche di cemento armato, che non rappresentava un semplice jazz club ma  un cenacolo di artisti che regalava profondi momenti di rispetto, fascino e insegnamento per chi la musica, oltre a masticarla, la voleva vivere da vicino. Una casa ricca di aneddoti che ha ispirato la ripresa musicale di Chet Baker ed ha ospitato il giovane e squattrinato Gato Barbieri; che è stata testimone di memorabili nottate regalate alla inquieta generazione romana degli anni ' 70 con le performance dal vivo di Miles Davis, Charles Mingus ed Elvin Jones, tanto per ricordarne alcuni…

Alla tragica e prematura morte dei due proprietari, avvenuta rispettivamente nel 1981 per infarto (Pepito) e 1992 per volontario soffocamento (Picchi),  il locale – nonostante molteplici gestioni e tentativi – non è mai riuscito a tornare ai livelli dell’eta d’oro del jazz ed è diventato – come proclama il titolo del documentario di Stefano Landini e Toni Lama, un tradizionale “cocktail bar”.


 

 
 
   
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